Interviste

Intervista ad Andrea Cereda

Quando e come nasce il tuo percorso artistico?
La mia vita è stata contaminata dall’arte fin da bambino.
Sono cresciuto con una nonna che amava la pittura.
Una nonna molto creativa che inventava per me giochi e cose da costruire e che ha sempre sostenuto la mia inclinazione all’arte.
E’ da lei che ho ereditato questo interesse.
Dopo gli studi all’Istituto d’Arte di  Monza, ho fatto l’Art Director in un’agenzia pubblicitaria milanese per molti anni: il linguaggio scritto, quello figurato e sublimato fanno parte del mio modo di essere e di pensare. 

La pittura è stata la mia prima forma espressiva (figurativa con forti valenze materiche), poi via via il mio interesse si è spostato verso la scultura e l’installazione in particolare con l’utilizzo del metallo.
Sono attratto dalle tracce che il tempo e i luoghi lasciano sulla materia.
Mi interessano le implicazioni concettuali che questi segni portano con sé.
Il modo di un materiale “duro” come il ferro di consumarsi, di farsi modificare dagli agenti atmosferici attraverso l’ossidazione, dal fuoco… mi indica che tutto fa parte di tutto.
Questo trasporto cellulare, atomico, questa simbiosi materica/concettuale, mi affascina da sempre.

Quali persone, artisti ed episodi hanno influenzato maggiormente il tuo lavoro?

Ho iniziato ispirandomi ad artisti storicizzati come Picasso, Modigliani, Schiele per le forme essenziali del loro tratto.
Poi Burri per  l’uso di materiali poveri e Fontana, per il modo di andare oltre la superficie rappresentativa, di entrare (e di farci entrare) in una dimensione altra, altrove da qui.  
Oggi seguo tutto ciò che muove il mio pensiero, non mi soffermo solo sull’Arte, ho bisogno di stimoli di natura differente e questi possono arrivare dal cinema, dalla fotografia, dalla lettura e dall’osservazione della vita stessa.
Quindi non ha importanza da dove giungano, l’importante è che riescano a pizzicare le corde giuste per muovere le idee nella mia testa, altrimenti che noia!!! 
Amo poi tutti quegli artisti (e quelle opere) che fanno del “messaggio umanistico” un valore imprescindibile.
Cosa cerchi attraverso l’arte?
L’arte è un mezzo.
E anche l’artista stesso lo è. 
Mezzi a disposizione di un’idea, di un concetto che esige di essere espresso: è utilizzare la materia per rappresentare l’immateriale.
Cerco così attraverso il mio lavoro di realizzare opere che sappiano “suggerire  storie”, che lascino a chi le guarda la possibilità di farle proprie, di sentirsi partecipe di un sentimento che parte dal mio vissuto personale ma che in realtà tocca la sfera universale, perché come disse Publio Terenzio Afro “Niente di ciò che è umano mi è alieno”.
C’è una parte della tua ricerca di cui vorresti parlare in particolare?
I miei lavori sono frutto di un “sentito interiore” più che di un “visto”.
Per realizzare le mie opere utilizzo lamiera di metallo.
Il metallo taglia, oppone resistenza, è freddo, non è facile da piegare, è una materia, dura, ruvida un po’come sono io.
Ciò che ne esce è frutto dell’incontro/scontro fra il materiale grezzo che viene utilizzato e il pensiero che sta dentro ad ogni opera.
Ciò che è non è solo quello che si vede. 
 
Qual’è il tuo rapporto con il mercato?
Non sempre, lo spessore dell’opera e il suo valore di  mercato vanno di pari passo.
Questo fa parte del gioco.
E in questo gioco fra Arte e mercato,  ritengo sia molto importante per un artista trovare, da parte dei collezionisti, quel contatto che nelle dinamiche del mero commercio, spesso si perdono. 
La stima, l’affetto e il riconoscimento del collezionista verso il proprio lavoro, ripaga di più del solo ritorno in denaro.
Cosa consiglieresti ad un artista che vorrebbe vivere d’arte?
Di lavorare seguendo il proprio istinto e di non lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà.
Inoltre lo inviterei  a non temere di mostrarsi per quello che  realmente è con o senza il suo lavoro.
L’autenticità per me ha un valore sacro.

Francesco Cogoni.

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