Interviste

INTERVISTA A SERGIO RAGGIO

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Il tuo lavoro sembra fortemente legato alla tua istruzione, hai studiato architettura alla Sapienza di Roma, quanto ha influito e tutt’ora influisce l’esperienza Universitaria sul tuo lavoro?
Ho interpretato l’università alla mia maniera, in modo un po’ anarchico, per cui seguivo i professori che mi potevano trasmettere qualche cosa e ignoravo, per quanto potessi, gli altri.

Ho studiato storia dell’arte con Filiberto Menna, Stefano Ray e Achille Bonito Oliva e composizione architettonica con architetti come Costantino Dardi, Carlo Aymonino e Luciano Rubino che mi avrebbe voluto come assistente, il nostro preside era il grande Bruno Zevi, un punto di riferimento per tutto il mondo culturale italiano.

La mia formazione è dunque sicuramente permeata da quella importante stagione dell’arte e dell’architettura  italiana, ma l’accademismo l’ho sempre rifiutato, e il mio lavoro è frutto di una ricerca più ampia, che si è sempre confrontata con tutto l’universo della creazione artistica contemporanea internazionale.

L’architettura e l’arte sono parte integrante della mia vita, ma la conoscenza non nasce tanto dalla scuola quanto dalla grande curiosità che mi ha portato in giro per il mondo a “vedere” e “vivere” ciò che stava succedendo in quel momento.

I tuoi lavori grafici danno l’idea di essere come delle bozze progettuali per sculture monumentali, almeno così me le sono immaginate, la mia è un’intuizione giusta?

La tua intuizione è giusta ma solo in parte.

Il mio è un lavoro di ricerca che non prevede un punto d’arrivo, una scoperta, ma la creazione di un’opera interrogativa, che non affermi verità ma che stimoli riflessioni universali.

Per me l’opera è la testimonianza istantanea del pensiero dell’artista, dunque le mie non sono mai opere definitive e compiute.

I lavori che tu chiami grafici hanno si una componente progettuale che può essere sviluppata in scultura, ma anche in animazioni tridimensionali o in oggetti di design o in architettura e forse in musica, all’origine c’è infatti un algoritmo che è anch’esso opera d’arte, e a quali sviluppi possa portare non si sa, forse a opere generate totalmente dal computer.

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Quanto influisce il territorio nello sviluppo e nella realizzazione delle idee e sulla possibilità di metterle in pratica?

Per me personalmente poco o nulla dal punto di vista della creazione. Io lavoro sulla cancellazione della memoria, un po’ perché a differenza di molti a me il passato sembra sempre più brutto di ciò che è realmente stato, un po’ perché ragionando su un tempo che non è passato né futuro e forse neanche presente magari riesco a ingannare l’indeterminazione quantistica.

Tendo quindi a creare linguaggi senza luogo e senza tempo, e poi oggi si vive in uno stato di coscienza virtuale, l’influenza del territorio dal punto di vista antropologico va analizzata casomai relativamente ai non luoghi immateriali dove la tecnologia ci fa vivere.
Rispetto alla seconda parte della tua domanda devo però aggiungere che il luogo dove vivi spesso per un artista determina opportunità e conoscenza, per cui pensare di fare l’artista in Sardegna senza sapere e vivere tangibilmente quel che succede a New York, a Londra o a Hong Kong è francamente impossibile, se questo era il senso della tua curiosità.

Si, mi incuriosisce molto questo aspetto, ovviamente le possibilità economiche sono un perno centrale, ma per essere buoni artisti bisogna necessariamente essere abbienti?

L’arte non è una professione, l’arte è inutile e per essere artisti si deve avere la consapevolezza e il coraggio di affrontare ricerche che portano alla creazione di prodotti intellettualmente elaboratissimi e raffinatissimi ma inutili dal punto di vista del pensiero economico occidentale. ciò determina che chi può sostenere e finanziare l’arte sono solitamente persone molto ricche che non hanno remore nel buttare spesso grandi somme di denaro per acquistare prodotti che non gli servono, e che per passione o per status vogliono partecipare a questo folle processo creativo a stretto contatto con gli artisti e con le loro opere.

L’artista non ha bisogno di essere abbiente ma deve sapersi confrontare con tale realtà fatta spesso di un lusso smisurato e di tanti soldi, che servono anche per produrre progetti a volte molto costosi. Basti pensare al lavoro di James Turrel a Roden Crater, un artista immenso che ha passato la vita a cercare fondi per comprare un cratere nel deserto e trasformarlo nel suo capolavoro.

I soldi non contano nulla, sono solo uno strumento e gli artisti non ne devono aver paura ne tantomeno diventarne schiavi.

Può capitare di diventare ricchi facendo gli artisti, ma è molto difficile. Se poi vuoi fare un ragionamento sull’industria culturale e su come molti artisti vengono creati a tavolino con investimenti colossali, ti dico che è tutto vero, ma non rimane niente di questi pseudo artisti e ti assicuro che la cosa peggiore che possa capitare ad un artista è essere dimenticato.

Cosa consiglieresti ad un’artista per non essere dimenticato?

Semplice, fare un opera che nessuno ha mai fatto prima.

 

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Francesco Cogoni.

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